lunedì 30 ottobre 2017

BRICIOLE di PAROLA
 
…dall’omelia del 29.10.2017

Matteo 22,34-40

Tutti noi abbiamo un chiodo fiso, chi più, chi meno; alcuni banali, ma rispettabilissimi, come l’ordine, la pulizia della casa, la cura del giardino, la passione dei fiori, qualche hobby; oppure la fedeltà agli impegni, la puntualità nell’eseguirli, la responsabilità di non tirarci mai indietro, l’educazione dei figli….Chiodi di tutte le misure e forme, di diverso materiale…

Anche Gesù aveva un chiodo fisso: fare la volontà del Padre suo. E questo chiodo è l’Amore! l’avevano capito, e forse ne erano infastiditi gli uomini, soprattutto quelli che avevano il loro chiodo fisso nella Legge, nell’osservanza esteriore di norme e precetti. E il chiodo fisso di ritenersi superiori agli altri e a posto, addirittura in credito, di fronte a Dio. Tanto da interrogare Gesù con l’intenzione di metterlo in difficoltà: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”.
E Gesù tira fuori il chiodo!
“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”.
“Amerai il tuo prossimo come te stesso”.
Il secondo è simile al primo.

Come è fatto un chiodo?
Testa, punta, un corpo che collega questi due punti.
Qual è il più importane, il primo, per l’efficacia del chiodo, perché possa incidere e fissare? Testa o punta.
Voi direte: la punta! Ma come può penetrare se non c’è la testa su cui battere e fare forza
Voi direte: la testa! Ma è inutile e si rovina il chiodo se non c’è  la punta che penetra.
No! Sono tutti e due importanti – simili (dice Gesù a proposito dei due comandamenti, che poi sono uno) per l’efficacia dell’unico chiodo che è l’amore.

Più si ama davvero Dio, cioè si batte la testa del chiodo, più si arriva ad amare il prossimo come Gesù ci ha insegnato, più la punta penetra lascia il segno. Se dovesse mancare la testa…non si pianta nulla!
Più la punta è affilata, più siamo ben disposti verso il prossimo, più l’amore di Dio si realizza, diventa vero. Se manca la punta battere sulla testa non serve, ci si illude e si fa solo danni.

Allora, ecco, il chiodo dell’amore, il più grande  dei comandamenti, il primo e il secondo che gli è simile, chiodo che fisserà Gesù alla croce (perché quelli erano chiodi d’amore!), chiodo che Egli consegna a noi.
Attacchiamoci al chiodo e avremo salva la vita!








giovedì 26 ottobre 2017

BRICIOLE di PAROLA

Luca 12,49-53.

Gesù non autorizza lotte familiari, guerre tra parenti, divisioni che generano pianti e sofferenze. Spesso avvengono a causa di motivi banali o sono ordinaria... follia. Egli mette in guardia dalle conseguenze di chi accetta e vuole seguirlo: costui non avrà pace facile (eppure sarà portatore di pace! ).

C'è,piuttosto, un'angoscia, una preoccupazione, una tristezza: non riuscire a coinvolgere, ad "accendere" quel "fuoco" che portava, l'amore.
Anche per noi: constatare che ancora non siamo riusciti ad "incendiare" il cuore e la vita di chi ci è accanto, familiari e non.
Ecco il motivo "serio"di incomprensioni e scontri.


Per "accendere" occorre essere "accesi", è accettare che sia "compiuto" in noi il battesimo che abbiamo ricevuto, cioè l'assimilazione completa a Gesù. Come? Ce lo dice il Salmo 1. In questo arido terreno, chi confida nel Signore e in Lui trova la gioia, medita la Sua parola "è come albero piantato lungo corsi d'acqua che dà frutto a suo tempo; le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa riesce bene".

martedì 24 ottobre 2017

BRICIOLE di PAROLA

…dall’omelia del 22.10.2017

Matteo 22,15-21

Gesù ad un esame di religione: “E’ lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. Gesù sorprende con una parola nuova: “Rendete a Dio quello che è di Dio”. Ma cosa mai è di Dio? Cosa devo rendere a Lui? Io sono mio, quello che possiedo è mio, quello che ho me lo son fatto da me, mio è il mio lavoro, la mia casa, la mia famiglia; mio è il mio tempo, mia è la mia vita… No! Noi siamo di Dio, siamo Suoi figli, egli siamo cari. Rendere a Dio ciò che è di Dio significa riconoscere e professare che Dio solo è il Signore dell’uomo, e non c’è alcun altro. “Non c’è nulla fuori di me. Io sono il signore, non ce n’è altri” ( Is.45,6).

Noi non siamo del lavoro, non siamo dei soldi, non siamo degli ingranaggi che in qualche modo ci costringono, non siamo del benessere, non dipendiamo nemmeno dalle condizioni di salute e malattia, anche se si fanno sentire, non siamo di nessuna autorità di questo mondo e nemmeno degli affetti più belli. Si tratta, allora, di aprirsi alla Sua volontà, di dare a Lui la nostra vita per realizzare il regno di misericordia, giustizia e pace.

Non trascuriamo, però, anche la prima parte della risposta di Gesù:“Rendete a Cesare quello che è di Cesare”. Prima di essere cristiani, siamo cittadini, siamo esseri umani. Siamo di Dio, ma lo siamo storicamente appunto come abitanti di questo mondo, affidato alla cura e alla premura nostre. E’ il luogo in cui ciascuno vive, il luogo in cui si è chiamati a vivere da cristiani, esprimendo la nostra fede in gesti visibili e concreti, a vantaggio di tutti. Pure il mondo è di Dio, a lui dobbiamo renderlo, e ciò avviene facendoci carico del bene dell’umanità. Ognuno lo farà con le competenze che gli sono proprie, ma tutti con eguale  e generosa responsabilità, da chi ci governa e chiede sacrifici sino al semplice cittadino a cui, sembra, sono chiesti.

Di questa cittadinanza onesta si serve Dio per realizzare il suo progetto di giustizia. Non tutti hanno la grazia della fede, ma tutti il compito di essere onesti cittadini, tanto più se abbiamo responsabilità di servizio e di governo. Il re Ciro, nella prima lettura, non era credente nel Dio d’Israele, ma evidentemente è stato anche un sovrano retto, in mezzo a cose sbagliate che avrà pure fatto. Ebbene, dice il Signore : “per liberare il mio popolo, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, un’autorità, sebbene tu non mi conosca, anche se tu non mi conosci.” Per fare un mondo di giustizia, Dio chiede e sostiene il contributo di esseri umani, retti  e saggi. Diamo a Dio quello che è di Dio e Dio darà all’uomo quello che lo fa veramente tale.








lunedì 16 ottobre 2017

BRICIOLE di PAROLA

…dall’omelia del 15.10.2017

Matteo 22,1-14

Dopo tre settimane passate nella vigna (con gli operai dell’ultima ora, i figli mandati a lavorare, e i servi che se ne impadroniscono uccidendo l’erede) è ora di andare a tavola. La Parola di Gesù ci porta dalla vigna al banchetto per gustare il frutto di tanto lavoro. Dal produttore al consumatore, con uno slogan moderno, per la gioia del re e degli invitati .

Ed è proprio questo invito ad una festa la prima buona notizia, dove “un banchetto di grasse vivande, di cibi succulenti, di vini eccellenti e raffinati” è allestito  per chi lo accetta. E’ l’invito a partecipare alla vita, perché quella festa di nozze a cui fa riferimento la parabola  sono la nostra vita dove Dio, mandando il Figlio, sposa, fa sua la nostra umanità.

Non ci danno diritto a questo banchetto di nozze i nostri meriti o referenze. Dio non ci chiama perché siamo buoni, ma piuttosto perché lo diventiamo. Fa radunare cattivi e buoni questo re.
Dio è semplicemente buono, anche se appare severo. M questa severità, che dice la grandezza dell’opportunità che ci è regalata, non gli è senza sofferenza perché rispetta la libertà e le conseguenze delle nostre scelte.

“Tutto è pronto”. Il nostro Dio è da sempre pronto a donare quanto mi deve essere motivo di festa. Ma io sono pronto ad essere amato? Egli vuole che la festa e la gioia dello sposo, il Figlio prediletto, diventino la mia festa e la mia gioia, la nostra festa, la nostra gioia.

Egli ci manda a cercare. Non ci sono crocicchi lontani, luoghi malsani,, angoli impervi, nostri nascondigli, presso i quali non ci raggiunga l’invito del re. Solo che ci lasciamo trovare e non accampiamo scuse per declinarlo, rifiutarlo.

C’è una sola condizione per accedere alla festa della vita e vi provvede lo stesso re: ci fa trovare la “l’abito nuziale”, che è lo stesso Gesù. “Rivestiti di Cristo” fin dal nostro Battesimo partecipiamo alla festa della vita…a tal punto che quando il re entrerà vedrà una moltitudine di …figli amati! 
E così banchetto di nozze diventiamo noi gli “sposi” per cui Dio ha imbandito la festa della vita.








domenica 8 ottobre 2017

BRICIOLE di PAROLA
 
…dall’omelia del 08.10.2017

Matteo 21,33-43

 Pensavamo fosse finita la stagione della vendemmia. E’ ormai tre settimane che siamo nella vigna. Lì ci conduce la Parola di Gesù anche questa domenica. La vigna è immagine del popolo di Dio, “casa d’Israele”,della Chiesa, dell’umanità intera, dei doni di Dio, del bene di cui vuole farci partecipi, della vita.

Nella vita veniamo assunti ad ogni ora e ad ognuno è dato, dalla bontà di Dio, ciò di cui ha bisogno e non secondo i meriti. Ce lo insegnava la parabola dei lavoratori assunti alle diverse ore del giorno, e, vera giustizia,  retribuiti tutti con che di che vivere.
Siamo onorati di essere mandati a lavorare nella vigna, la vita, non come servi o schiavi, ma come figli che godono della fiducia del padre; padre che non ci ricatta, né si scoraggia delle nostre risposte.

Ora di questa vigna, sempre la vita, diventiamo lavoratori responsabili; partecipi sì di tanto bene, ma non padroni. Siamo chiamati a rispondere del nostro lavoro, ma non possiamo impossessarcene di questo bene e farne ciò che vogliamo, cioè toglierlo al legittimo erede, vale a dire il Figlio, che poi è Cristo Gesù. Dio vuole certamente condividerla con noi la vita, ma ne rimane Colui che l’ha fatta con tanto amore, come descrive la prima lettura  (Isaia 5,1-7), e l’ha affidata a noi.

A volte pensiamo che eliminandolo, eliminando via via i segni della sua presenza, ambasciatori che ce lo ricordano, possiamo sfruttarla al meglio; e il fatto che non sia nostra lo consideriamo un furto, mentre siamo noi i ladri di un bene che ci è stato dato in affitto, e di cui dovremo rendere conto. Altro che “prendiamola, è nostra”. Quante volte diciamo, in parole e scelte: “la vita è mia e me la gestisco io”! 
Così cacciamo fuori della vigna, della vita, ed eliminiamo l’unico che ce la fa apprezzare, godere, rendere feconda di tanti buoni frutti. Questi è Gesù. Siamo illusi e saremo pure delusi, perché una vigna senza Gesù dà frutti acerbi; una vita senza di Lui diventa vuota.

L’orgoglio di sapere che cosa sia meglio per noi in questa vigna, il farcene padroni, l’arroganza, l’egoismo, la paura di essere sfruttati,  ci impediscono di godere di lavorare in essa  e di gustarne i frutti. Soltanto i semplici, come termina la parabola di Gesù, sono in grado di ringraziare, lodare, di lavorare contenti, di gioire, pur in mezzo alla fatica del lavoro, di stare al mondo. Non è finita la partecipazione ai benefici di cui il padrone della vigna ci colmerà.





lunedì 2 ottobre 2017

BRICIOLE di PAROLA
 
…dall’omelia del 01.10.2017



Matteo 21,28-32


Sì e no! Due brevissime parole, le più brevi affermazioni che troviamo nel vocabolario. Su queste si gioca l’esistenza, si percorre la nostra via. Sono come due binari. Ora saltiamo su uno ora sull’altro.


Nella parabola ascoltata, le risposte dei figli, sia il sì e sia il no, ci appartengono. 
I nostri sì  tante volte  si fermano alle parole e si tramutano in no; altre volte i nostri no diventano sì.  Da cosa può dipendere? Dalla voglia, dalla stanchezza, dall’interesse, dal calcolo…? Dipendono da chi abbiamo davanti! Come faccio io perseverare nel mio sì volonteroso senza rimangiarmelo? Come faccio io a non temere i miei no, e vincere  quel “non ne ho voglia” così familiare?


Dipende da chi abbiamo davanti? Ecco allora che la buona notizia che riceviamo oggi non è semplicemente nell’esempio di chi dapprima dice no e poi cambia idea, e diventa obbediente. Buona notizia, vangelo, è quel padre. Un padre che dice poco, ma quel poco è assai significativo.


E’ un padre che “rivolge” ai figli. Non alza la voce, non grida, non comanda, non batte i pugni, non impone. Piuttosto invita, esorta, forse richiama a responsabilità, chiede, e, persino, potrebbe anche aver pregato perché la sua richiesta  inizia con quella parola che non è parola di padrone, parola che sa d’amore e non di dominio: “Figlio”. Chissà con che cuore l’avrà detta! Conta sui figli, sulla loro maturità, sul bene che vuole per essi, non li ricatta, e accetta la risposta che danno, in silenzio. Forse noi diremmo è un padre debole che non sa farsi rispettare. E’ padre che sa amare!


In esso m’immagino qualcosa del volto di Dio. Dio, che incassa i nostri no come soffre per i sì falsi, vive l’attesa che arriviamo al ravvedimento. Quel “poi si pentì” della parabola illumina il suo viso perché rivela che per ognuno, peccatore o prostituta che sia, c’è davvero questo spazio di ravvedimento. Lo posso anche ingannare, ma non riuscirò mai a deluderlo. Mi capita dirgli di no. Lo accetta, appunto, confidando che poi il cuore e il senso di responsabilità che mi ispira mi aiuteranno a ricredermi, a farmi partecipe protagonista e beneficiario della vigna e dei suoi buoni frutti.


Nessun “no” ci allontana dall’ amore, dalla salvezza, che Dio vuole per i suoi figli. Egli sa che l’amore vincerà.