martedì 26 settembre 2023

 BRICIOLE di PAROLA...nell'omelia

25° Domenica A – 24/09/2023

Matteo 20,1-16

Due domande. Una relativa al padrone della vigna e una ai possibili, e poi, di fatto, assunti lavoratori. Perché tanta sollecitudine del padrone della vigna, questi suoi continui passaggi in piazza, in ore ben precise dapprima, e poi anche all’ultimo momento? Cos’è che lo motiva, lo spinge? Teme che il lavoro si fermi, il raccolto vada perduto? Teme che la stagione non dia soddisfazione e si veda sfumare un possibile guadagno? Vien da dire così fa un vero padrone, responsabile della propria azienda. E’ da rispettare per la sua serietà.

La domanda relativa ai possibili, e poi assunti lavoratori? Che cosa cercano? Di che cosa hanno bisogno? Perché il lavoro, e accettano l’assunzione, dietro la promessa del padrone di un compenso giusto? Perché alcuni sono lì in piazza, alle prime ore del giorno, e altri arrivano dopo, chi nelle ore più calde della giornata, e persino chi alla fine, con calma, forse anche con pigrizia o con sfortuna? E soprattutto, ecco la domanda finale, che cosa hanno di ritorno? Il compenso pattuito, il compenso giusto, il compenso che consenta loro e alle famiglie di tirare avanti? Tutte risposte possibili e, mi pare, sensate, giuste. E quello che avviene nella realtà il Signore non mancherà di benedire tutto questo agire del padrone e dei lavoratori se fatto con sincerità e buon cuore.

Ecco allora la risposta che io ho colto nella mia preghiera davanti a questa parabola che non ha assolutamente la pretesa di essere il protocollo di un rapporto di lavoro tra datore e dipendenti. Essa mi rivela qualcos’altro, e come sta avvenendo in queste domeniche la Parola di Dio, mi fa conoscere qualcosa del cuore di Dio.

Stando appunto alla figura del padrone, Egli esce continuamente a chiamare lavoratori per la sua vigna non per un suo interesse di guadagno, non vuole vedere andar perso il raccolto, ma per il desiderio, per la volontà di dare dignità alle persone, sì, anche con il lavoro; le assume per offrire loro la possibilità di vivere con serenità; gli sta a cuore il bene di quelle persone; è “buono” con tutti, una bontà che non toglie nulla alla giustizia, come poi ricorda a chi protesta. E, come se non bastasse, magari, farà partecipe dei proventi coloro che hanno lavorato, tanto o poco secondo la misura che usiamo nei nostri affari, perché vuole il bene di tutti. Nessuno deve temere che Dio gli faccia mancare ciò di cui ha bisogno, vale a dire la Sua bontà, anche se arriva all’ultima ora. Dio è buono in ogni momento, in ogni momento Dio è buono!

Anche la domanda relativa ai lavoratori attende una risposta. Sì, chiedono perché hanno bisogno, sono nella necessità per sé e per la famiglia, forse anche hanno un desiderio di guadagno. Non sta a noi giudicare. Ma cosa trovano? Alcuni rimanendo scandalizzati, altri felicemente sorpresi, trovano un padrone umano, così umano da essere…divino. Ed è questa umanità che rende meno pesante il lavoro, quando la incontriamo; un’umanità che tra noi deve togliere ogni briciola di invidia, di avidità, di voglia di scalzare l’altro, un’umanità che sa gioire che tutti stiano bene. Mi ha sorpreso qualche volta di incontrare persone che non hanno lasciato il lavoro per un altro più remunerativo, perché dove erano, pure faticando come si deve, dicevano “qui sto bene, c’è umanità, qui siamo trattati da persone, da dirigenti, padrone, e colleghi”.

Miei cari, nella vita, dalla piazza alla vigna, il nostro Dio, che Gesù, quasi delegato amministratore, meglio Figlio del Padre, si rivela. Contiamo su questa Sua bontà per cui sempre ci cerca, ed anche se risultiamo  ritardatari al Suo amore non ne saremo privati. In questo ambiente di lavoro, che è la nostra vita, fatichiamo, ma pure siamo contenti gli uni per gli altri, senza invidia di sorta, premiati tutti sempre dal medesimo e giusto amore. Ne avremo quanto basta, e avanza!

 

 

 

lunedì 18 settembre 2023

 BRICIOLE di PAROLA...nell'omelia

24° Domenica A – 17/09/2023

Matteo 18, 21–35

 

Perdonare significa ridare vita. Lo dice la parabola che abbiamo ascoltato. Quel povero uomo indebitato con il suo padrone aveva finito di vivere, era alla morte, lui e i suoi cari. Il perdono, anzi il condono, lo ha fatto rivivere. Ma il perdono non ridà la vita solo a chi sarebbe giustamente da condannare, la vita è restituita anche a chi concede il perdono. Il rancore e la vendetta, che noi a volte confondiamo con la giustizia, portano su vie di morte le nostre relazioni, ci svuotano e ci inaridiscono. Le relazioni interpersonali muoiono invece quando non ci si perdona più.

Pietro vorrebbe capire quando il perdono è definitivamente compiuto. Invece non è mai finito. Altro che fino a sette volte! Il perdono, per Pietro, deve avere un limite, ci deve essere un punto in cui le cose sono chiare. Ma Gesù insegna a Pietro che il perdono, come ogni altra cosa nella vita, è un cammino, un percorso, non è mai finito. Non solo perché chi ho perdonato me ne può fare ancora, ma semplicemente perché il ricordo di quello che ho passato può risvegliare in me risentimenti o voglia di giustizia. E quindi ogni volta che mi viene in mente, io sono chiamato ad un atto di perdono. Questo significa fino a settanta volte sette…Vuol dire senza compiersi mai definitivamente. Come non si può smettere di respirare per vivere, così non si può smettere di perdonare. E’ vero. La nostra la coscienza vuole sentirsi a posto, concediamo una misura di perdono che ci permetta di sentirci giusti. Ad un certo punto vorrebbe dire: «Basta! Ho fatto quello che dovevo fare!». Gesù insegna invece che il perdono non ha misura, proprio perché non c’è un momento in cui smettiamo di avere bisogno di perdonarci reciprocamente. 

Ma noi siamo chiamati a rinnovarlo continuamente con atti di amore che appunto sono dati “per dono”, come lo è la generosità “per dono”, la pazienza “per dono”, e così via. Mai perché tocca, o per convenienza, o per dovere, o per educazione, tanto meno per interesse. Ma tutto “per dono”.

Questo cammino, questa continuità di “perdono” da dare ha un fondamento. Consiste allora nella gratitudine per il perdono ricevuto, come rimprovera aspramente il padrone al servo che non ha imparato la lezione. Riesce a perdonare solo chi si rende conto che siamo sempre in debito, che siamo sempre perdonati.

 

Andando alla parola della scorsa domenica, quella relativa alla correzione fraterna, dobbiamo prender atto che a volte non ha effetto, ed è cosa saggia e rispettosa della libertà di chi non vuole essere aiutato, prendere le distanze e lasciarlo andare per la sua strada. Questo però non significa negargli il perdono, anzi, custodirlo nel cuore per offrirlo qualora capitasse l’occasione di esternarlo, sia che venisse o non richiesto.

Ricordati che anche tu sei continuamente perdonato, e ne avrai beneficio ogni volta che con umiltà ti accosterai a Dio. Se non lo fai , come potrai imparare l’amore di cui il perdono è la fibra più vera e vitale?

 

 

 

 

lunedì 11 settembre 2023

 BRICIOLE di PAROLA...nell'omelia

23° Domenica A – 10.09.2023

Ezechiele 33, 7-9        Romani 13,8-10      Matteo 18,15-20

Ammalata! Gravemente ammalata! Porta alla morte tante belle relazioni, mette fine ad ogni sogno, impedisce il sorgere di nuove attese…ammalata, mortalmente ammalata! E’ la comunicazione, e il non saper più parlarsi, oltre che ascoltarsi. La comunicazione è nodo difficile, quasi come un cancro che rode, nella convivenza, sia a livello di social, soprattutto, sia nell’ambito familiare o dei contatti quotidiani. C’è urgenza di guarire la comunicazione. Non di rado è violenta, aggressiva, e ogni cosa o fatto che dovrebbero essere occasione di dialogo, confronto, corresponsabilità e aiuto reciproco, si trasformano in un pretesto per litigare, dividere, rompere.

Gesù, con la Sua presenza, vuole essere medico di questa grave malattia. Gli insegnamenti che abbiamo sentito nel vangelo stamane vogliono favorire la guarigione della comunicazione e il recupero della comunità  in cui siamo, financo nella famiglia. Con la Sua parola ci dà la possibilità di fare passi che ci aiutano a superare i conflitti e a ricostruire le relazioni. Innanzitutto Gesù chiede di dare tempo all’altro: il cammino di conversione non avviene immediatamente, occorre offrire delle occasioni e delle opportunità. Gesù, come abbiamo sentito a proposito della correzione, invita invece a stabilire una serie di passaggi: cercare un incontro personale, chiedere l’intervento di testimoni, appellarsi alla comunità.

Il diritto e il dovere di correggere viene dalla fraternità. “Quando il tuo fratello (badate bene: l’altro è il fratello!) commetterà una colpa verso di te va’ e ammoniscilo tra te e lui solo”. Io correggo, io mi muovo perché l’altro è il mio fratello, mio figlio, mia figlia, mio genitore, mio sposo o sposa, così lo sento e lo amo così. Io intervengo perché gli voglio bene e voglio il suo bene. Il fatto di essere parte di una comunità, principalmente la famiglia, ci deve ricordare che insieme abbiamo un dono da conservare e vivere, la corresponsabilità. E nella comunità, luogo della possibilità di volersi bene, di fare del bene, ci può necessità della correzione fraterna, che ha delle tappe.

Qualche passo addietro, Gesù aveva affidato solo a Pietro, come punto di riferimento della comunità, il potere di legare e di sciogliere, cioè di fermare il male  e di favorire il bene. Qui la responsabilità viene estesa. L’intera comunità deve sentirsi “sentinella” responsabile della sorte del fratello. Il suo destino, figlio, genitore, amico, chiunque sia, ci riguarda tutti. Come è possibile vivere la fraternità, essere comunità, con responsabilità? Risposta : “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. Se in una famiglia c’è spazio e cuore per Gesù, l’ascolto della Sua parole e preghiera concorde, condivisa, sarà possibile la comunicazione, la correzione, se necessaria, per il bene di chi sbaglia, e di tutti.

Parola terribile per chi non ascolta nessuno: “se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano”. No, non è una condanna, sapendo come Gesù ha agito verso pagani e pubblicani. E’ un’amara medicina, estrema ratio, nel rispetto della libertà, perché si ravveda. A questo provvederà la grazia di Dio che può far breccia in ogni cuore che diventa umile.