lunedì 28 settembre 2020

BRICIOLE di PAROLA ...nell'omelia 

26° Domenica A – 27.09.2020 

Ezechiele 18,25-28  e Matteo 21,28-32 

Gesù oggi ci provoca con la parabola dei due figli, che alla richiesta del padre di andare nella vigna, che è anche loro,  rispondono: il primo no, ma poi ci va; il secondo sì, ma poi non va. Il primo figlio è indolente e pigro, il secondo è falso e ipocrita.

Nel cuore del primo, dopo il no, risuonava o gli rodeva dentro ancora l’invito del padre; nel secondo, invece, nonostante il sì, la voce del padre era forse stata sepolta. Il ricordo del padre ha ridestato il primo figlio dalla pigrizia, mentre il secondo, diventato impermeabile alla voce del padre, e della coscienza, ha smentito il dire col fare.

Gesù con questa parabola pone due strade davanti a noi. Visto che, davanti a scribi e farisei, simili nel cuore al secondo figlio, chiama le cose per nome: In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”, possiamo scegliere se essere peccatori pentiti, che restano in ascolto del Signore e quando cadono si pentono e si rialzano, come il primo figlio; oppure peccatori ipocriti, attaccati alle apparenze, pronti a giustificarsi sempre e solo a parole secondo quello che conviene. La parola chiave è pentirsi: è il pentimento che permette di non irrigidirsi, di trasformare i no a Dio in , e i al peccato in no per amore del Signore. Ed è la parola che permette al figlio che s’era tirato indietro, invece, di fare ciò che è gradito al padre.

In questa parabola di Gesù noi vediamo qualcosa di noi stessi, a volte pigri, lenti, poco interessati, impauriti…tutte situazioni che ci frenano; a volte, purtroppo, peggio, falsi, che promettono e non mantengono. Ma conosciamo anche qualcosa del padre, autentica buona notizia, che è poi quello che induce il ribelle a ricredersi e, speriamo, il fannullone a convertirsi prima o poi. 

Quel padre si “rivolge” ai figli, cioè è presente, sembra non alzare la voce;  non grida, non comanda, non batte i pugni, non impone. Piuttosto invita, esorta, forse richiama a responsabilità, chiede con quella parola che non è parola di padrone, parola che sa d’amore e non di dominio. “Figlio”. E conta sui figli, sulla loro maturità, non li ricatta, accetta, persino, la risposta che danno, in silenzio. Non riprende il primo che gli dice “no” e si fida del secondo che ne tradisce la fiducia. Forse è padre debole che non sa farsi rispettare? No. E’ padre che sa amare! Il padre che è presente e che sa amare riesce a portare dalla parte del bene e della responsabilità il proprio figlio; questi non può rimanere insensibile. Lo stesso padre non mancherà di scoraggiarsi se invece gli tira il pacco.  

In lui c’è qualcosa del volto di Dio, del suo sguardo su di noi, della sua voce, del suo cuore. Dio, che incassa i nostri no come soffre per i sì falsi, vive l’attesa che arriviamo al pentimento. Lo possiamo mettere alla prova, ma non riusciremo mai a deluderlo. Ci capita dirgli di no. Li accetta, appunto, confidando che prima o poi il cuore e il senso di responsabilità che ci ispira il suo amore ci aiuteranno a ricrederci, a farci partecipi protagonisti e beneficiari della vigna e dei suoi buoni frutti. 

Nessun “no” ci allontana dall’ amore, dalla salvezza, che Dio vuole per i suoi figli. Egli sa che l’amore vincerà.  

 

 

domenica 20 settembre 2020

 BRICIOLE di PAROLA...nell'omelia

25° Domenica A – 20/09/2020 

Matteo 20,1-16 

La parabola degli operai chiamati al lavoro a ore diverse e pagati allo stesso modo, disorienta non poco. Del resto sappiamo tutti che basta parlare e trattare di soldi per non capirsi. Ma questa storia di Gesù non intende intrattenerci sui rapporti di lavoro e sui criteri di giustizia retributiva che li devono regolare. E’ un altro il messaggio che egli vuole comunicare. Certo che ha scelto un terreno piuttosto minato per farlo, ma per scuotere le persone bisogna toccarle nel portafoglio. Comunque Gesù vuole scuotere il cuore!

Ma davanti a Dio dobbiamo essere disposti a passare dalla considerazione dei nostri meriti allo stupore del dono, dal criterio della proporzionalità a quello della gratuità, e nei confronti degli altri, dall’invidia alla condivisione. Il nostro senso di giustizi non viene preso in giro, ma va rivisto. Non è l’ingiustizia che provoca la protesta, ma l’invidia. “Tu sei invidioso perché  io sono buono?”, risponde il padrone della parabola a chi lo contesta.

La giustizia di Dio, dice Gesù, non è come la nostra. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie”, già ci faceva sapere la prima lettura (Isaia 5,6-9) Non è nemmeno capriccioso il nostro Dio (“faccio quello che mi pare e piace”), tant’è vero  che il padrone, nella parabola, dialoga, spiega le sue ragioni, si sforza di far capire che le lamentele sono ingiustificate. Se agisce come agisce, non è perché trascura chi ha lavorato di più o sostiene che il lavoro non sia servito a nulla. “Ma guarda un po’, facciamo il nostro lavoro, non rechiamo male a nessuno, siamo onesti, e siamo trattati come quelli che invece non lo sono”. Se Dio agisce così è perché ama anche gli ultimi e non soltanto i primi.

L’amore di Dio non deriva dal nostro merito, ma è completamente e totalmente dono suo. Dio intende incontrare ogni uomo, giusto o peccatore, nella gratuità, superando la legge della proporzionalità. Dio mi vuol bene non in proporzione al mio impegno: mi ama e basta! Non va contro la giustizia, va oltre la giustizia e agisce nella più grande bontà. Anche se la proporzionalità ha una sua verità e validità, la novità di Dio va più in là. Dio è uno che non paga, Dio regala! In Lui non c’è giustizia distributiva, ma “affettiva” che è di altra e alta qualità: dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno per vivere! Il nostro senso di giustizia potrebbe contenere un po’ d’ invidia. Anche gli ultimi avevano bisogno di quella paga per vivere, e il padrone gliel’ ha data, rivelando la misura precisa della giustizia che non è dare quello che uno si merita (quella si chiama compra-vendita) ma dare quello di cui uno ha bisogno (e allora si chiama misericordia e bontà).

Ci dà fastidio che Dio non sia come noi, ma è questa la conversione a cui Gesù ci chiama: noi dobbiamo essere come lui e non viceversa. Ma allora essere buoni o essere cattivi è la stessa cosa? La parabola non dice questo, ma che Dio è buono e grande nell’amore, e ama gli ultimi come i primi. Se voi avete due figli, uno buono e uno cattivo, non ditemi che amate di più quello buono. Non ci credo! La pietra fondamentale su cui è costruita una casa, una famiglia, non è la proporzionalità, ma la gratuità.

Per chi è  alla fine la parabola: per gli ultimi o per i primi? Se siamo tra quelli dell’ultima ora conosciamo così un dono insperato, una misericordia inattesa. Se siamo tra i primi, fortunati e zelanti, scopriamo la  gratuità, la gioia di aver avuto l’onore di “lavorare molto” per il Signore e non per la paga. Poi sei abbiamo il cuore di Dio, anche la gioia di vedere che anche altri conoscono e vivono della sua bontà. Per lui siamo tutti i primi.

 

martedì 15 settembre 2020

BRICIOLE di PAROLA...nella meditazione e preghiera

15.09.2020

Beata Vergine Maria Addolorata

Ieri il nostro sguardo era rivolto a Gesù che dava fino in fondo la propria vita per amore, facendo della Sua croce non una maledizione ma un luogo da cui si diparte la benedizione di Dio, e , quando si tratta, invece, della nostra croce, un luogo dove ci raggiunge la benedizione.

Oggi il nostro sguardo di sposta sulla Madre. Forse non abbiamo il coraggio di tenere levati gli occhi al Crocifisso viste le sue condizioni, gli spasmi, irriconoscibile per le carni straziate. Ma se indirizziamo i nostri sulla Madre, pensiamo forse di trovarci di fronte ad un dolore minore, diverso, meno crocifisso?

Ciò che dà la misura e la temperatura del dolore non sono soltanto i colpi, i flagelli, il male fisico, ma l’amore. Più amore, più dolore!

Allora ci verrebbe da dire : mettiamoci meno amore nelle nostre relazioni, e avremo meno dolore. Chi ama poco, soffre poco! Sì è anche vero. Ma il dolore che pensiamo scansato, evitato, ci ritornerà più violento e allora non avremo l’amore per fronteggiarlo, saremo distrutti. Qual è l’amore che fa fronte al dolore ,e che lo converte in un luogo che può produrre altro amore? E’ l’amore la cui radici sono in Dio.

Maria è la Madre Addolorata perché ama come ogni mamma ama il proprio figlio, e l’ama nella fede, cioè si fida, non senza fatica e lacrime, che in Gesù si compirà il progetto per il quale il Padre glielo aveva dato con il concorso dello Spirito Santo.

Perché Maria, la madre, ha resistito ai piedi della croce , mentre sono fuggiti tutti discepoli del Figlio suo? Può aver persino invocato: “Figlio fammi morite con te”. Ella è rimasta lì! Penso che lì sia “nutrita” del Corpo e abbia “bevuto” del Sangue del Figlio abbracciandolo. I Vangeli tacciono sulla sua presenza al Cenacolo, ma non possono nasconderla al Calvario. Lì è stata l’Eucaristia di Maria, il rendimento di grazie, l’offerta al Padre di quel suo Figlio.

Maria ha conosciuto vari momenti di dolore nella sua esistenza di Madre di Gesù. I Vangeli li narrano, la pietà della Chiesa li ricorda e li celebra. Quello che tutti li riassume è ai piedi della croce dove Gesù stesso Crocifisso quel dolore raccoglie, unisce al Suo, e rende ricco di speranza per coloro che potevano esserne travolti: “Donna , ecco il tuo figlio!...Ecco tua madre!” (Giovanni 19,26-27).

Essere e stare nel dolore quando l’amore di Dio ci guarda, e lo fa certamente dall’alto della croce a cui ritorniamo a guardare con commozione, gratitudine, e pianto, è non sentirci soli, abbandonati, senza speranza. La prova continuerà, ma la risurrezione verrà!

 

 BRICIOLE di PAROLA...nell'omelia

24° Domenica A – 13/09/2020  

Matteo 18, 21–35

Quando la correzione, a cui ci aveva esortato Gesù domenica scorsa, fallisce, non ha successo, non ottiene nulla, allora c’è spazio per un miracolo ancora più grande: il perdono! Il perdono non è il fallimento della correzione, ma la rivelazione più chiara di ciò che ci muove o ci ha mosso, l’amore.

La Parola ascoltata oggi ci illumina proprio sul perdono. E Gesù, con la parabola che racconta, ci rivela che l’elemento centrale della vita e di ogni comunità cristiana, a cominciare dalla famiglia, è il perdono. Gesù non pone limiti al perdono. “Non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”, cioè oltre a quello che la legge ebraica prescriveva. Il discepolo di Gesù deve essere disposto a ricominciare sempre di nuovo a perdonare perché anche Dio ogni giorno lo perdona di nuovo. Come Dio: “Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”.

Chi si riconosce debitore agli occhi di Dio e riceve il condono del proprio debito, chi confessa il proprio peccato e celebra il perdono che Dio gli dà, può essere in grado di capire che cos’è il perdono ed è chiamato a ripeterlo nei confronti degli altri. Se tu non perdoni, è perché non sai o hai la pretesa di non essere debitore davanti a Dio. E’ questo è grandissimo peccato! Chi vive il perdono di Dio con il cuore sincero, non può non perdonare chi lo ha ferito, risposta alla pietà che gli è stata usata. Come si sviluppa il perdono?

- Prima di tutto nei pensieri: “io ho avuto pietà di te”, dice il re al servo malvagio “perché mi hai pregato”, ho creduto al tuo buon cuore. Davanti al male, all’ offesa, al torto recatoci, proviamo rancore, risentimento, rabbia, esigenza di giustizia, voglia di fargliela pagare…Sentimenti impossibili da spegnere! Ci tormentano. Il perdono non è legato immediatamente alla sparizione di questi, che ci accompagnano per tanto tempo, come una ferita aperta o una cicatrice da portare. Solo la Grazia ci sostiene!

* Non aspettiamo a perdonare quando ci è passata o abbiamo avuto giustizia, o dimenticato. Anzi il ricordare, paradossalmente, è condizione per un perdono continuo ininterrotto, rinnovato. “Perdono, ma non dimentico”, spesso diciamo rivelando dei residui amari nel nostro cuore; piuttosto, invertiamo l’ordine delle parole, o meglio dei sentimenti, e il risultato cambia: “non riesco a dimenticare, quindi ho l’opportunità di un nuovo perdono!”.

- Il perdono si realizza nei gesti, con i fatti. Il re che “impietositosi i del servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito”; cosa che non fece lo stesso servo verso il suo malcapitato compagno mandandolo in carcere.

* Buone le intenzioni, belle le parole, ma a volte è addirittura  inopportuno dire a uno “ti perdono” . Si rischia di farlo imbestialire di più, perché pensa che gli facciamo pesare la sua cattiveria. Allora il semplice sincero saluto, un gesto di cortesia, un atteggiamento di comprensione, di simpatia, una disponibilità manifesta alla collaborazione… possono confermare e realizzare il perdono! Due attenzioni in appendice: per dare il perdono non sempre è opportuno ritornare sul male che ci è stato fatto, si rischia una catena di recriminazioni senza fine; e poiché le ferite aperte richiedono tempo per guarire, occorre usare intelligenza, pazienza, tatto per trovare il modo di mostrare all’altro che è stato perdonato.

Il perdono, oltre a costruire un mondo “nuovo” qui,  che non esiste senza perdono, ci porterà alla porta del Paradiso. E lì non possiamo presentarci privi dell’opera più buona e più santa di tutte, quella di aver perdonato nella corso della nostra vita. Il Signore, nel darci suo perdono, ci chiederà se noi abbiamo fatto altrettanto verso gli altri.. La parola severa di Gesù con cui termina la lezione che la parabola c’impartisce (“Così anche il Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”)  non è una minaccia, un atto di terrorismo. E’ la sua correzione fraterna nei nostri confronti.

domenica 6 settembre 2020

BRICIOLE di PAROLA...nell'omelia

23° Domenica A – 06.09.2020

Ezechiele 33, 7-9        Romani 13,8-10      Matteo 18,15-20 

Come la mettiamo in questa famiglia? Come si può andare avanti in questa casa? Dai, sono lamentele comune, quotidiane, feriali e festive. Tutti possiamo aver delle colpe e mancare in qualcosa verso gli altri. C’è proprio bisogno di tentare una correzione reciproca.

A tal proposito Gesù ci dà alcune preziosi suggerimenti perché sia “fraterna”, piuttosto arduo mettere in pratica. Sono tra le parole più impegnative del vangelo. Nessuno di noi vorrebbe mai né sentirsi oggetto di correzione, ed è una responsabilità non facile prendersi cura della correzione altrui. Quando ci capita, ci tocca, o decidiamo intervenire, non sempre lo facciamo con le dovute, necessarie disposizioni. Gesù ci viene incontro e ci insegna una gradualità di interventi.

1 – “Quando il tuo fratello (badate bene: l’altro è il fratello!) commetterà una colpa verso di te va’ e ammoniscilo tra te e lui solo”. L’autorizzazione, il diritto, il dovere, di correggere viene dalla fraternità. Quando dobbiamo correggere qualcuno non basta essere preoccupati della verità o giustizia, doverosamente necessarie. Io non intervengo perché penso di avere ragione e l’altro no, io non correggo l’altro perché io sono nel giusto e l’altro no, ma perché vivo la fraternità; mi muovo perché l’altro è il mio fratello, mio figlio, mia figlia, mio genitore, mio sposo o sposa, così lo sento e lo amo così. L’altro è colei o colui che io amo. Io intervengo perché gli voglio bene e voglio il suo bene Se non lo amassi, è meglio lasciar perdere. La fraternità serve la verità e la giustizia. Dipende dal cuore di carità di ci corregge, dalla testa, umile, di chi riceve la correzione 

2 – “Se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello”. Ancora la parola “fratello”, e poi questo verbo così familiare, che tanto ci attrae: “guadagnare”. Domenica scorsa Gesù aveva messo in guardia: “che serve guadagnare il mondo se tu perdi la vita?”. Ciò che conta guadagnare è il fratello, salvare la sua  e la mia vita, aiutarlo a non rimanere nel male, a non radicarsi nel peccato, rompere con l’unità e la comunione della famiglia. Paolo, nella seconda lettura, scrive: non siate debitori di nulla a nessuno se non dell’amore vicendevole. Se c’è questo amore allora è possibile, è doveroso, aiutarci in una reciproca correzione. E può ricordare come abbiamo sentito: “Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai… ecc, non ti comporterai in maniera dissennata”  noi. Certo, e sarò capitato anche voi, l’altro può dirmi: non rompere, non impicciarti, pensa agli affari tuoi, faccio quello che voglio”.  “Hai ragione, ma tu mi sei fratello in Cristo, e ti parlo perché mi sento responsabile di te”. Dopo la fraternità, quindi, vi è la responsabilità affinché nessuno vada incontro alla morte ma abbia la vita vera.

3 – Come è possibile vivere la fraternità e intervenire con responsabilità? Risposta : “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. “Il mio nome”, dice Gesù, è carità, è amore, è passione per l’altro, è affetto, è amicizia… Se in una famiglia la preghiera è condivisa, non ignorata , o almeno non derisa, la carità sarà presente e sarà possibile correggersi reciprocamente con frutto di pace e serenità. Penso che in una famiglia ci possa essere una battaglia più o meno continua, incomprensioni e difficoltà ad andare d’accordo perché non si prega insieme, non si pone Gesù lì nel mezzo. Con lui vengono sentimenti e atteggiamenti che permettono anche la correzione che non è mai dolce, né per chi la riceve né per chi la dà. E se non portasse i frutti sperati? Rimangono due cose: mettersela via o perdonare. Ma di questo ci parlerà Gesù domenica prossima.

Lo Spirito ci metta nel cuore la Sua carità. Per essere sempre custodi responsabili e fratelli gli uni degli altri.