mercoledì 28 ottobre 2020

 BRICIOLE di PAROLA...nell'omelia

30° Domenica A – 25.10.2020

Esodo 22,20-26     -    1Tess 1,5-10     -     Matteo 22,34-40

“Qual è il grande comandamento?”.Questo è il grande e il primo comandamento: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. “Il secondo poi è simile a quello”. “Amerai il prossimo” è simile ad “amerai Dio”. E così il prossimo è simile a Dio. E’ la rivoluzione portata dal vangelo e sottolineata da Gesù: “Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno dei miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me”. Questo comandamento sarà pur grande e il primo, ma soprattutto è al centro, perché è il cuore da cui tutto deve partire.

“Amerai”, ricorda Gesù. Non significa che per voler bene dobbiamo aspettare domani, dopo, un altro momento. L’amore è coniugato al futuro perché amare è azione mai conclusa. Un giorno saremo immersi nell’Amore! Per intanto camminiamo in esso, con tre passi : ama il tuo Signore, ama il tuo prossimo, come ami te stesso. Sembra egoismo, ma da qui io parto. Un percorso che io voglio fare a ritroso. 

Io amo me stesso. Io mi voglio bene, mi amo per davvero, non quando mi levo tutte le voglie, mi tolgo tutte le soddisfazioni, nulla mi manca con cui tento di calmare la mia sete di vita e felicità, ma quando do credito al fatto che io sono amato, sono figlio caro, sono la gioia per gli occhi e il cuore di Dio, mio Padre. Mi rendo conto che è un modo inconsueto: io amo me stesso, mi prendo a cuore, quando mi rendo conto e vivo, pur in mezzo a tribolazioni, prove, sofferenze, di questa verità. Mi affido a questa certezza di fede!

Amo il prossimo come me stesso, quando, con parole, gesti, fatti, al prossimo io faccio capire la stessa verità: anche “tu sei amato, tu sei figlio, tu mi sei fratello, e il Padre, Dio, ti ama. Attraverso di me, Egli è per te provvidenza, accoglienza, tenerezza, benevolenza, perdono, aiuto. Nella mia umanità, ti amo come Lui, come Gesù, che ha detto “Amatevi come io vi ho amati”. Le indicazioni concrete della prima lettura, e quelle che troviamo nel vangelo, non possiamo trascurarle senza tradire il Suo insegnamento.  

“Amo il Signore mio Dio con “con tutto me stesso”, cuore, anima, mente, quando, in forza della fede, lo riconosco, lo abbraccio, mi sforzo di seguirlo, nella vita, nei fatti, nell’ascolto della sua Parola! Lo testimonio con l’amore ai fratelli, segno visibile di quello che porto a Dio.

L’amore è la misura della fede, la sua manifestazione, e la fede è l’anima dell’amore, è il cuore che muove. Non possiamo separare la vita religiosa, la preghiera, dal servizio ai fratelli che incontriamo; dall’attenzione concreta all’altro, da prenderci cura delle sue ferite. Dimmi come ami ed io ti dirò com’è la tua fede! Dio e il prossimo non sono due comandamenti; sono un unico volto!

O Padre, sei la più sicura difesa degli umili e dei poveri, donaci un cuore libero da tutti gli idoli, per servire te solo e amare i fratelli secondo lo Spirito del tuo Figlio, facendo del suo amore l'unica legge della vita.

martedì 20 ottobre 2020

 BRICIOLE di PAROLA...nell'omelia

29° Domenica A – 18 Ottobre 2020 

Matteo 22,15-21

“Rendete a Dio ciò che è di Dio”. Ma cosa mai è di Dio? Cosa rendere a Dio? Io sono mio, quello che possiedo è mio, quello che ho me lo son fatto io, mio è il mio lavoro, la mia casa, la mia famiglia; mio è il mio tempo, mia è la mia vita… Lo diciamo, spesso lo pensiamo, o lo manifestiamo con le nostre scelte.  

L’annuncio del vangelo contesta e converte questa convinzione: noi siamo di Dio, siamo figli di Dio, sua immagine vivente qui, siamo suoi, gli siamo cari. Rendere a Dio ciò che è di Dio significa riconoscere questo fondamento, poggiare e innalzare su di esso la nostra esistenza. E’ consegnare noi stessi alla nostra verità per trovare l’autentica libertà e la realizzazione piena e bella della nostra vita. Se togliamo le fondamenta ad una costruzione, quella crolla; a fatica la puntelliamo perché stia su ed è così purtroppo che conduciamo tanta nostra esistenza: siamo come puntellati, ingabbiati, cerchiamo sostegni, perché tutto non ci finisca sulla testa.

Riconoscere e rendere a Dio ciò che viene  ed è di Lui significa che non c’è niente, anche se di estremamente importante  bello, che poi è dono suo, che possa vantare su di noi un qualche possesso. No, noi non siamo del lavoro, non siamo dei soldi, non siamo degli ingranaggi che in qualche modo ci costringono, non siamo del benessere, non dipendiamo nemmeno dalla condizione di salute e malattie, anche se si fanno sentire, non siamo di nessuna autorità di questo mondo e nemmeno della famiglia anche se sono realtà in cui Dio ci chiede di vivere fino in fondo con responsabilità e solidarietà, con amore. Siamo di Dio e in tutto questo è riconoscere il primato Suo, il Suo amore, luce e guida in ogni situazione.

“Io sono il Signore e non v’è alcun altro; fuori di me con c’è dio” viene proclamato e ripetuto nella prima lettura. Iniziamo con questa convinzione ogni nostra giornata con la sua infinità di rapporti, in casa e fuori, in famiglia, al lavoro, nella società. Rendere a Dio unico Signore, noi stessi significa mostrare innanzitutto gratitudine per l’esistenza che ci ha dato; e vivere con fedeltà , con amore, non con timore ma confidenza, il nostro essere tutti figli suoi e fratelli tra noi. Concretamente equivale a rispettare la nostra vita non  mettendola in balia dei vari idoli di questo mondo. Quando qualcosa ci prende cuore, testa, tempo, vuol dire che forse è o sta diventando l’idolo che serviamo. Noi siamo di Dio, siamo dell’amore e non delle nostre voglie o passioni. Ritorniamo a Lui  il bene che riceviamo perché non possiamo dare a nessun altro, a chicchessia, la nostra vita al di fuori di Dio o contro Dio.

Ma dobbiamo anche “dare a Cesare quello che è di Cesare”. Siamo figli di Dio, questa è la nostra identità profonda, ma lo siamo storicamente anche come cittadini di questo mondo, affidato alla cura e alla premura nostre. Non è realtà negativa; è il luogo in cui ciascuno vive, è il luogo in cui si è chiamati a vivere da cristiani, testimoniando la nostra fede con  impegno, esprimendola in gesti visibili e concreti, a vantaggio di tutti. Anche il mondo è di Dio, a lui dobbiamo renderlo, e ciò avviene facendoci carico dell’umanità con le sue gioie e speranze, le sue tristezze e angosce. Ognuno lo farà con le competenze che gli sono proprie, ma tutti con eguale  e generose responsabilità, da chi ci governa sino al semplice cittadino. Viviamo il compito di cristiani insieme a tutti gli uomini di buona volontà, con il particolare contributo che il vangelo ci ispira. 

La bella notizia di oggi non è “pagare o non pagare”, ma ricevere l’assicurazione che noi siamo di Dio; non siamo dei soldi e neanche della miseria. Siamo di Dio: restituendoci a Lui non mancheremo di nulla.

Signore, a te restituisco oggi me stesso, povero, obbediente, libero. Tu mi farai vivere in pienezza, qui e nell’eternità.

martedì 13 ottobre 2020

 BRICIOLE di PAROLA...nell'omelia

28 ° Domenica A – 11.10.2020 

Isaia 25,6-10      Filippesi 4, 12-20       Matteo 22,1-14

Dalla vigna alla tavola. E’ lo slogan con cui potremmo accogliere la Parola che oggi ci viene data. Dopo essere stati settimane a vendemmiare – ricordiamo le tre parabole di queste ultime domeniche – è giusto e bello ritrovarsi ad un banchetto a bere delle frutto delle nostre fatiche e della passione del Padre per la Sua vigna che è la nostra vita, il sogno di un’umanità che ci ama, di una comunità dove siamo “fratelli tutti”.

Il banchetto a cui fa riferimento, sia il profeta sia la parabola di Gesù, è il banchetto di nozze perché il Padre, in Gesù, ha sposato la nostra umanità. La pesante condizione in cui ci troviamo per le difficoltà della vita, quel velo di tristezza che ne deriva, la morte soprattutto, con conseguenti lacrime abbondanti su ogni volto, e vergogna per tanta miseria, con tale sposalizio tutto questo il Signore eliminerà per sempre. “La mano del Signore” porrà fine alla nostra tribolazione e servirà  un banchetto” di ogni ben di Dio, con “grasse vivande, vini eccellenti, cibi succulenti, vini raffinati”. Un immagine di festa e di gioia.

L’invito a questo banchetto della vita viene esteso “a tutti quelli che troverete”, dice il re. Il beneficio di godere dello Sposo, che è Gesù tra noi, tocca anche chi pensava di non esserne degno. “Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali”. Altro che credenziali o titoli d’onore. I primi coinvolti sembrano essere i meno degni e i più bisognosi di conoscere la festa della vita, la festa con lo Sposo. Chiamateli tutti alle nozze, sembra dire il re, fate sapere che c’è un posto per loro.

Anche noi siamo tra gli invitati. Davvero c’interessa questo banchetto, questa vita che Dio ha imbandito con il suo Figlio? A volte sembra, come hanno fatto alcuni nella parabola, che con tante scuse non ce ne curiamo. Con sufficienza e leggerezza decliniamo l’invito ad approfittare  dell’ opportunità di bene e salvezza che viene fatta data a “cattivi e buoni” : tutto è pronto”, venite alle nozze”. Dio non vuole quella festa per sé, ma per noi, non ha mandato il Suo Figlio per avere più gloria, ma perché l’amore Suo che l’ha portato a fare queste nozze con noi, faccia la nostra felicità.

Invitati, come ci presentiamo? Occorre entrare nella vita e starci rivestiti dell’ “abito nuziale”, l’abito della festa. A noi sembra una stranezza ingiusta l’obiezione del re a colui che non l’ indossava. Non era una formalità da cui poteva astenersi. Dobbiamo sapere che in oriente il re oltre che “chiamare gli invitati” donava abitualmente la veste del convito all’invitato. Non indossarla, voleva dire, “si accetto, ma a modo mio”. Che sia così anche per noi, spesso con la pretesa di essere cristiani a modo nostro, di partecipare al banchetto della vita come meglio ci pare e piace, negando la vita, l’amore, la giustizia, la pace…quasi a voler imporre noi a Dio il nostro stile?

Dio colmerà ogni nostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza in Cristo Gesù” Questi è l’ “abito nuziale” da indossare che ci permette di gustare in pienezza la festa della vita a cui siamo stati invitati. Rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza.

martedì 6 ottobre 2020

 BRICIOLE di PAROLA...nell'omelia

27° Domenica A – 04.10.2020

Isaia 5,1-7          Matteo 21,33-43

E’ lunga questa vendemmia. Anche oggi la Parola di Gesù ci porta nella vigna, immagine del popolo di Dio della Chiesa, dell’umanità intera, dei doni di Dio, del bene di cui vuole farci partecipi, della vita.

La prima nostra risposta alla parabola di Gesù, che appunto ci riguarda, è che vogliamo sentirci onorati di essere mandati a lavorare nella vigna, la vita; di avere questa opportunità, invece di lamentarci o maledirla. La vigna, la vita è bellissima, pur con tutte le sue difficoltà. E’ luogo di allegria, di festa, di amore, di gioia. Non si va nella vigna come servi o schiavi, ma come figli che godono della fiducia del padre; padre che non ci ricatta, né si scoraggia delle nostre risposte. Ce lo diceva la parabola di domenica scorsa.

Attraverso le parole del profeta Isaia e  il Vangelo con l’immagine della “vigna” noi conosciamo il sogno di Dio, il progetto che Egli coltiva con tutto il suo amore, come un contadino si prende cura del suo vigneto. Un’ umanità nuova, la vita di ognuno di noi e di tutti noi. L’ha piantata e la coltiva con amore paziente e fedele perché diventi un’umanità che porti tanti buoni frutti di giustizia.

Ma sia nell’antica profezia, sia nella parabola di Gesù, il sogno di Dio viene frustrato. Isaia dice che la vigna, tanto amata e curata, «ha prodotto acini acerbi» (5,2.4), mentre Dio «si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (v. 7). Nel Vangelo, invece, sono i contadini a rovinare il progetto del Signore: essi non fanno il loro lavoro, ma pensano ai loro interessi.

Forse questo richiama anche noi che della vigna, della vita,  siamo chiamati ad essere custodi e lavoratori responsabili; partecipi sì di tanto bene, ma non padroni. Non possiamo impossessarcene e farne ciò che vogliamo, cioè toglierlo al legittimo erede, vale a dire il Figlio, che poi è Cristo Gesù. Dio vuole certamente condividerla con noi la vita, ma Egli ne rimane Colui che l’ha fatta con tanto amore, come descrive la parabola, e in Cristo Gesù l’ha affidata a noi.

Quante volte, con presunzione, superbia, orgoglio, invece di sentirci onorati e grati, diciamo, in parole e scelte: “la vita è mia e me la gestisco io”. E cacciamo fuori della vita, eliminiamo l’unico che ce la fa apprezzare, godere, rendere feconda di tanti buoni frutti. Questi è Gesù. Siamo illusi e saremo pure delusi, perché una vigna senza Gesù dà frutti acerbi; una vita senza di Lui, pietra fondamentale, diventa vuota.

Noi possiamo “frustrare” il sogno di Dio se non ci lasciamo guidare dallo Spirito Santo che ci dona la saggezza per lavorare generosamente con vera libertà e umile creatività. Un lavoro che ha in serbo una grande gioia se, invece di rifiutarlo e di “ucciderlo” dentro di noi, daremo accoglienza al Figlio al quale il Padre ci ha affidati perché abbiamo vita, portiamo frutto e frutto in abbondanza.